Quanti di voi hanno studiato greco o latino alle superiori?
E quanti si sentirebbero in grado di parlare in greco o in latino, di sostenere una conversazione quotidiana in una di queste lingue o almeno di leggere un classico in lingua originale senza eccessiva difficoltà?
Se alla prima domanda in molti avranno alzato la mano (probabilmente con qualche sgradevole retrogusto scolastico), non è difficile prevedere che le richieste successive saranno sembrate ai più una provocazione o una battuta. Eppure, proprio a partire da questo paradosso di lingue studiate per tanti anni senza mai essere parlate (né lette, né gustate), il 16 e 17 marzo si è tenuto a Firenze il ‘Primo Seminario Internazionale in Didattica delle Lingue Classiche’ promosso dall’associazione GrecoLatinoVivo: due giornate densissime di relazioni e confronti fra studenti, docenti e semplici appassionati, in un clima piacevolmente informale seppur nella fastosa cornice del Teatro Niccolini.
L’affluenza del pubblico superiore a qualsiasi aspettativa (circa 400 iscritti) è stata la rappresentazione plastica di un’esigenza comune: ‘ripensare i classici’, ripensando in primo luogo i metodi di insegnamento del latino e del greco. Attingendo alle teorie didattiche comunemente note sotto il nome di ‘metodo Ørberg’, i relatori del seminario hanno presentato una serie di strumenti e di esercizi utili per insegnare il latino e il greco come lingue vive, nonché per impararlo una seconda volta dopo essere stati istruiti a scuola e all’università secondo il metodo tradizionale (con i risultati che ciascuno può verificare rispondendo alla seconda domanda in apertura).
L’esperienza di ciascuno di noi con la propria lingua materna e con le altre lingue moderne dimostra che il nostro cervello è naturalmente portato ad apprendere ogni linguaggio dapprima nella sua globalità, passando solo in un secondo momento ad analizzarlo nei singoli elementi grammaticali. Il metodo tradizionale di insegnamento delle lingue classiche inverte questo percorso, risultando del tutto controintuitivo: anziché calare gli studenti in medias res, permettendo loro di assaporare da subito il suono antichissimo della lingua per arrivare gradualmente a comprenderla anche nei suoi più complessi meccanismi morfologici e sintattici, da oltre due secoli si preferisce partire dalla grammatica – intesa come selva di nozioni astratte e astruse eccezioni – promettendo paradisi di testi meravigliosi che in realtà quasi nessuno, alla fine del proprio percorso scolastico, sarà mai in grado di apprezzare senza il supporto di una traduzione.
Ripartire dall’ascolto, dalla centralità attribuita al lessico, dalla gratificazione ottenuta nel parlare finalmente una lingua dopo tanto studio, dalla partecipazione attiva nel gioco e nel dialogo: è questa la strada giusta per far innamorare (e ri-innamorarsi) dei classici? A giudicare dal silenzio assorto che ha incorniciato le relazioni in lingua latina, si direbbe proprio di sì.
Ma, scavando più in profondità, si scorge una questione più vasta, comune a tutto un pianeta culturale – e forse più che mai a quello umanistico – che si sente estraneo (se non proprio agonizzante) nel mondo dell’eterno presente globale, della comunicazione onnipervasiva, del dogma della velocità. E appare chiaro che, se non esistono risposte pronte o soluzioni prestabilite, l’unica via da percorrere è questa: rimettersi in discussione, rivedere quelle colonne che ci sembravano portanti e che mostrano ormai crepe irreparabili, scrutare nuovi orizzonti senza tradire se stessi.
La rotta che si sta cercando di invertire nella storia delle lingue classiche – da lingue di cultura parlate a lingue di cultura mute – è la rotta che si dovrebbe provare a cambiare in tanti spazi culturali che parlano ormai a pochissimi o a nessuno (in primis le università). Come il greco e il latino, così anche la ‘lingua-cultura’ sta correndo il rischio concreto di restare su carta, allontanandosi dall’unico luogo in cui può trovare un senso: la voce, la vita. Ma se, anziché cogliere la sfida di un mondo in continuo mutamento, il pensiero sceglierà di rifugiarsi in segrete stanze polverose e stanche, nei monologhi delle torri d’avorio, la colpa sarà soltanto sua, cioè nostra.
Audentes fortuna iuvat. Insegnare, dialogare, fare cultura è – indubbiamente – avere coraggio.
Fulvio Vallana