«Ciascuno si fa saggio per via d’altri: così fu in antico e così sempre. E non è semplice affatto scovare le porte di parole mai dette» (Bacchilide, 'Peani', fr. 5 Snell-Maehler)
Nel ricordo nostalgico delle serate trascorse a Torino, Guido Gozzano sovrappone il proprio sguardo di poeta a quello di “Giacomo fanciullo”, ovvero agli occhi di Giacomo Leopardi. Quello sguardo che, circa un secolo prima dei ‘Colloqui’ gozzaniani, si era posato, con la severità del genio, sulle meschinità del proprio “natio borgo selvaggio”, si ritrova a inizio ‘900 assorto tra madame e reverendi, in mezzo ai ‘bastalà’ di un salotto torinese. Eppure in quegli occhi – negli occhi del poeta – molto appare cambiato: egli rimane un outsider rispetto all’accolita apparentemente omogenea che lo circonda, ma sembra ora rendersi conto che quel linguaggio e quei modi “beoti” e scialbi fanno in fondo parte di lui, contribuiscono in maniera determinante alla definizione del suo ‘io’, anche se (e proprio in quanto) così distanti dalla sua Musa “sdegnosa, taciturna ed incompresa” (v. 60). Il poeta che “tacito ed assente” ascolta ed ama i suoni di quel pettegolo salotto – accostandolo alla Recanati leopardiana – testimonia da un lato che la meschinità umana non varia di molto nei luoghi e nei secoli; ma dall’altro suggerisce anche che la prosaica vita quotidiana di case, salotti e borghi contiene in ogni dove un’indefinibile poeticità, se è vero che dall’ottuso brusio della storia sono emerse, per vie misteriose, proprio le voci di Leopardi, dello stesso Gozzano e di tanti altri grandi. Così Gozzano, tramite il gioco della poesia, trasferisce Recanati in un salotto di Torino; e trasforma anche Giacomo per un attimo, a sua insaputa, in ‘bogianèn’.
FV
G. GOZZANO, Torino, vv. 7-30
E quante volte già, nelle mie notti d’esilio, resupino a cielo aperto, sognavo sere torinesi, certo ambiente caro a me, certi salotti beoti assai, pettegoli, bigotti come ai tempi del buon Re Carlo Alberto... «...se ‘l Cônt ai ciapa ai rangia për le rime...» «Ch’a staga ciutô...» - «’L caso a l’è stupendô!...» «E la Duse ci piace?» - «Oh! Mi m’antendô pà vaire... I negô pà, sarà sublime, ma mi a teatrô i vad për divertime...» «Ch’a staga ciutô!... A jntra ‘l Reverendô!...»
S’avanza un Barnabita, lentamente... stringe la mano alla Contessa amica siede col gesto di chi benedica... Ed il poeta, tacito ed assente si gode quell’accolita di gente ch’à la tristezza d’una stampa antica... Non soffre. Ama quel mondo senza raggio di bellezza, ove cosa di trastullo è l’Arte. Ama quei modi e quel linguaggio e quell’ambiente sconsolato e brullo. Non soffre. Pensa Giacomo fanciullo e la «siepe» e il «natío borgo selvaggio».
G. LEOPARDI, Le ricordanze, vv. 28-37
Né mi diceva il cor che l’età verde sarei dannato a consumare in questo
natio borgo selvaggio, intra una gente
zotica, vil; cui nomi strani, e spesso
argomento di riso e di trastullo,
son dottrina e saper; che m’odia e fugge,
per invidia non già, che non mi tiene
maggior di se, ma perché tale estima
ch’io mi tenga in cor mio, sebben di fuori
a persona giammai non ne fo segno.