Da sempre Franz Liszt ha incarnato nell’immaginazione collettiva la figura del pianista-virtuoso per antonomasia. Fin dai primi anni della sua attività concertistica strabiliò il pubblico di tutta Europa soggiogandolo con un virtuosismo e un carisma talmente formidabili da apparire a qualcuno di natura diabolica. Le cronache del tempo testimoniano ampiamente il clima di incredibile fanatismo che accompagnava le sue esibizioni e lo stesso Liszt ce ne offre un quadro eloquente in una sua lettera: “Io sono la grande moda. Non potete credere come sia difficile per me rimanere solo per un quarto d’ora. Posso chiudere la porta, appendere giù all’ingresso un grosso cartello, come ordinatomi dal medico, ma non serve a niente: la mia stanza è sempre sovraffollata. È insopportabile. La mia vita è favolosamente monotona: vengo adulato e festeggiato da tutto il mondo”.
Ciò che però ha veramente dello straordinario è che questa immagine, peraltro alquanto limitante, di Liszt concertista-virtuoso che ancora oggi persiste, non si è formata attraverso una carriera concertistica durata tutta una vita, ma soltanto nell’arco di circa un decennio. Negli anni fra il 1839 e il 1847 Liszt suona in 166 città di 18 paesi diversi, dal Portogallo alla Russia, dalla Danimarca alla Turchia. Nel 1847, dopo essersi esibito in pubblico quasi tremila volte toccando ogni angolo d’Europa e scatenando ovunque quella che Heine definì la “Lisztomania”, il “re del pianoforte” decise di cambiare radicalmente la sua vita che fino a quel momento gli era sembrata troppo simile a quella di “un cane ammaestrato”: “Per me viene il momento, a trentacinque anni, di infrangere la mia crisalide di virtuoso e di dare libera espressione alle mie idee”, scrisse in una lettera al granduca di Sassonia. Da allora, fino al 1859, la sua attività fu interamente dedicata alla composizione e alla direzione del Teatro di corte di Weimar, dove in poco più di dieci anni svolse un’ opera preziosissima e insostituibile di animatore culturale, promuovendo l’esecuzione e la diffusione della musica di autori come Berlioz, Mendelssohn, Schumann, Wagner.
È proprio ai primi anni di Weimar che risale la versione definitiva delle Consolations, six pensées poétiques. Il titolo di Consolations fa probabilmente riferimento all’omonima raccolta di poesie del francese Joseph Delorme, pseudonimo di Charles Sainte-Beuve (1804-1869), pubblicata nel 1830. Da un punto di vista musicale, invece, questi brevi brani dal tono languidamente sentimentale sembrano fare chiaramente riferimento al modello della Romanza senza parole di Mendelssohn, come dimostra immediatamente la prima, un brevissimo Andante con moto in mi maggiore di appena 25 battute, che in realtà è da considerarsi un “sipario” per la seconda (Un poco più mosso) alla quale è in effetti collegata musicalmente. La terza (Lento placido), celeberrima, è una sorta di calmo e languoroso “sogno d’amore”, mentre la quarta (Quasi adagio), dal sereno andamento di corale, è basata su un tema della granduchessa Maria Pavlovna, omaggiata enigmaticamente nella stella disegnata sul frontespizio e nell’indicazione iniziale “cantabile con divozione”. L’atmosfera non cambia nel quinto brano (Andantino) ed è solo nella sesta ed ultima Consolation (Allegretto cantabile) che per un attimo appena fa capolino il virtuoso Liszt, prima che la raccolta si spenga serenamente in un sommesso e placido accordo di mi maggiore.
GB