«Ciascuno si fa saggio per via d’altri: così fu in antico e così sempre. E non è semplice affatto scovare le porte di parole mai dette»
(Bacchilide, Peani, fr. 5 Snell-Maehler)
Chi di noi non è mai naufragato? Lungi dall’essere esperienza riservata alla vita di mare, il naufragio – in se stessi o fuori di sé – è un’agrodolce avventura che riguarda tutti gli uomini, naviganti audaci ed incerti sul mare dell’essere. I poeti, naturalmente, lo sanno da sempre, e da Teognide a Leopardi, da Lucrezio a Baudelaire, da Dante a Mallarmé tentano di insegnarci che c’è modo e modo di naufragare.
Rimbaud e Ungaretti, in particolare, suggeriscono due possibilità alternative ma che, se vogliamo, possono essere una la continuazione (e il compimento) dell’altra. La forza sregolata del poeta-vate nel ‘Bateau ivre’ (‘Il battello ebbro’) di Rimbaud conduce la barca con cui l’io lirico si identifica verso un naufragio che è inabissamento tragico nell’ignoto, culminante nell’invocazione finale della morte (“Oh, la mia chiglia scoppi! Ch’io vada in fondo al mare!”). L’accavallarsi delle sinestesie, l’estasi e lo straniamento radicale nel viaggio allucinatorio di Rimbaud portano dunque ad una “pozzanghera / nera e gelida”, “nell’ora del crepuscolo”. L’alba, su questo naufragio nelle tenebre, si sarebbe realmente levata solo qualche decennio più tardi, nel ritmo franto dei versi di Ungaretti che illumina di fatto il precedente del grande maestro decadente: l’ ‘Allegria di naufragi’ è infatti la misteriosa riscossa del navigante, giunto in fondo all’abisso. Ma, per raggiungere questa allegria, il naufragio si rivela passaggio necessario: essa è allegria ‘di’ naufragi, non allegria ‘nei’ o ‘malgrado i’ naufragi; è insomma allegria che si sostanzia dei naufragi stessi. Un ossimoro apparente, nutrito dello stesso mistero da cui, in ogni tempo, trae origine la poesia.
FV
Allegria di naufragi
di Giuseppe Ungaretti
E subito riprende
il viaggio
come
dopo il naufragio
un superstite
lupo di mare
___________
da Il battello ebbro
di Artur Rimbaud
[…]
Dentro lo sciabordare aspro delle maree,
L’altro inverno, più sordo di una mente infantile,
Io corsi! E le Penisole strappate dagli ormeggi
Non subirono mai sconquasso più trionfante.
La tempesta ha sorriso ai miei risvegli in mare.
Più lieve di un turacciolo ho danzato sui flutti
Che eternamente spingono i corpi delle vittime.
Dieci notti, e irridevo l’occhio insulso dei fari!
[…]
Io so i cieli che scoppiano in lampi, e so le trombe,
Le correnti e i riflussi: io so la sera, e l’Alba
Che si esalta nel cielo come colombe a stormo;
E qualche volta ho visto quel che l’uomo ha sognato!
Ho visto il sole basso, fosco di orrori mistici,
Che illuminava lunghi coaguli violacei,
Somiglianti ad attori di antichi drammi, i flutti
Che fluivano al tremito di persiane, lontano!
Sognai la notte verde dalle nevi abbagliate,
Bacio che sale lento agli occhi degli Oceani,
E la circolazione delle linfe inaudite,
E, giallo e blu, il destarsi dei fosfori canori!
[…]
Ma basta, ho pianto troppo! Le Albe sono strazianti.
Ogni luna mi è atroce ed ogni sole amaro:
L’acre amore mi gonfia di stordenti torpori.
Oh, la mia chiglia scoppi! Ch’io vada in fondo al mare!
Se desidero un’acqua d’Europa, è la pozzanghera
Nera e gelida, quando, nell’ora del crepuscolo,
Un bimbo malinconico abbandona, in ginocchio,
Un battello leggero come farfalla a maggio.