La musica classica appare, agli occhi dei più, come un genere superato, vicino a studiosi puristi e, al contempo, lontano dagli stili musicali moderni.
Eppure, proprio la musica classica contiene stili ed influenze che, nel corso dei decenni, sono penetrati proprio nei generi musicali che siamo maggiormente abituati ad ascoltare.
Tra questi, il rock.
Sembra assurdo paragonare un chitarrista moderno ad un violinista virtuoso del passato, ma per quanto assurdo non è irrealistico.
La scorsa settimana, per esempio, sulle righe di questa rubrica abbiamo voluto illustrarvi un’importante opera di Edvard Grieg, nello specifico l’ultimo brano della Suite dell’op. 46 del Peer Gynt, intitolato In The Hall Of The Mountain King.
Ebbene, quello stesso brano, poco più di una ventina di anni fa, è stato ripreso e arrangiato da Ritchie Blackmore, all’epoca impegnato con la band da lui stesso formata, i Rainbow.
Fortemente influenzato dalla musica classica, da lui stesso definita ‹‹un sollievo per l’anima››, Blackmore iniziò a suonare la chitarra elettrica da giovanissimo, diventando, nel corso degli anni, uno dei musicisti hard rock più preparati tecnicamente e, nel corso dei propri studi come musicista (perché sì, se si è musicisti, anche tra i più talentuosi, non si finisce mai di studiare, prepararsi e rinnovarsi nella tecnica e nella capacità espressiva), non rinunciò mai a cimentarsi in brani di musica classica – prime tra tutte, le composizioni di Johann Sebastian Bach – arrangiandole personalmente per eseguirle sulla propria Fender Stratocaster.
I primi tentativi di unione tra classico e moderno da parte di Blackmore risalgono agli inizi degli anni ’70, quando, militando nei Deep Purple, venne inciso il famoso Concerto For Group And Orchestra, un disco nel quale la band britannica veniva accompagnata da un’orchestra con la quale il chitarrista gallese dialogava in perfetta sintonia, eseguendo assoli virtuosi che ben si inserivano nelle esecuzioni orchestrali.
Erano i primi esperimenti tra quelli che, un decennio più avanti, portarono alla nascita dell’heavy metal neoclassico ed alla salita alle luci della ribalta di chitarristi virtuosi del calibro di Yngwie Malmsteen, Eddie Van Halen, Randy Rhoads e Jason Becker.
Blackmore fu, in questo, un pioniere e continuò su questa strada anche dopo essere uscito dai Deep Purple definitivamente, all’inizio degli anni ’90.
Proprio in seguito a tale episodio, infatti, egli decise di riportare in vita la propria creatura, quei Rainbow nei quali avevano militato artisti di livello quali Ronnie James Dio e Cozy Powell, e di incidere un nuovo disco.
Ed è proprio in quest’album, intitolato Stranger In Us All, che Blackmore arrangia la suite di Grieg.
Attraverso il cantato di Doogie White, l’ascoltatore pare immergersi in un vagabondaggio al chiaro di luna, proprio in quell’antro del re della montagna descritto da Grieg, ma ormai abbandonato.
Ciononostante, l’antro ormai spoglio reca ancora, in sé, la percezione di antiche leggende, nelle quali le streghe si riunivano di notte per intonare i loro canti alla luna e ridere istericamente, senza alcun controllo.
Nel buio della notte, antichi misteri rimangono velati alla ragione, ma in parte intuiti dall’anima, come un richiamo ancestrale.
E, al centro del brano, la voce narrante – e ‹‹cantante›› – cede il passo all’assolo di chitarra elettrica, che ricalca l’intro dell’Hall Of The Mountain King nonché quella del Morning Mood del Peer Gynt di Grieg.
Realizzato nel 1995, Stranger In Us All è il canto del cigno dei Rainbow, vissuti, seppure a singhiozzo, per vent’anni.
Dopo quel disco, la svolta classicheggiante di Blackmore si farà ancora più radicale: appenderà la Stratocaster al chiodo – pur rispolverandola, ogni tanto – e, con la propria compagna, Candice Night, darà vita ai Blackmore’s Night, avventurandosi nel rock rinascimentale.
Gli assoli distorti lasceranno spazio a melodie medievali di chitarra classica, bouzouki, flauti rinascimentali e altri strumenti tradizionali, conducendo l’ex chitarrista dei Deep Purple alle origini di quella musica melodiosa che, nel corso dei secoli, è giunta alle interpretazioni barocche e romantiche.
Più volte, nel corso di varie interviste, Ritchie ha dichiarato di sentirsi un menestrello medievale, che vaga di corte in corte a portare la propria musica, arrivando ad affermare di esserlo stato in una vita precedente (sì, l’eccentrico chitarrista crede nella reincarnazione, ma del resto ogni artista è singolare a modo proprio).
Ebbene, con quest’ultima svolta, introdotta dall’arrangiamento di In The Hall Of The Mountain King, possiamo dire che il virtuoso si è ricongiunto al menestrello.