“Quanti racconti abbiamo udito sulla signoria esercitata da Crono?”
“Direi moltissimi!”
“Nessuno, tuttavia, riesce a narrare l’avvenimento stesso che ha generato questi racconti.”
“Per quale ragione?”
“Davvero non è evidente? Ogni volta che diciamo qualcosa sul tempo siamo già nel tempo.”
Non esiste concetto più enigmatico e dispotico del tempo, perché dalla tirannia di Crono non sembra esserci scampo. Le cose son già sempre sue suddite: non appena germogliano, son ormai destinate ad appassire.
Eppure – secondo il mito – Zeus, a differenza dei fratelli, non fu divorato dal padre; tutt’al contrario ne rovesciò l’impero ingannandolo. Ingannare il tempo è in fondo il sortilegio più agognato, l’elisir di ogni alchimista, la ricetta di ogni beato.
Il dio della folgore in un baleno spodestò il titano, ordinando con un lampo sia il cielo, sia il mondano.
All’improvviso il potere assoluto di Crono crollò: le orbite dei pianeti e i cicli degli astri iniziarono a scandire il suo operato, rendendolo misurabile, e addirittura prevedibile. Persino gli uomini in qualche modo lo sbeffeggiarono: con la mediazione di Hermes, Zeus donò ai mortali parole, numeri e leggi con cui cicatrizzare l’emorragia del divenire, stabilendo i confini degli eventi secondo il “prima” e il “poi”. Astronomia, linguaggio e diritto furono (e tutt’ora sono) i modi più elementari con cui addomesticare il tempo.
Ma così come Zeus ribaltò il dominio del padre, così il suo regno può facilmente essere minacciato. Cosa accadrebbe se qualcuno si impossessasse della sua folgore?
All’improvviso lo spazio si restringe, i pianeti retrocedono, le leggi cambiano e le parole più non si capiscono. Crono infuria dal Tartaro!
In un istante ci siamo, in un attimo non più. Tutt’a un tratto gioiamo, in un minimo frangente ci disperiamo. Sulla porta di tutti i sentieri c’è una sola incisione: attimo. Il luogo in cui tutto continua, e dove ogni cosa cambia.
Eugenio Buriano