«Ciascuno si fa saggio per via d’altri: così fu in antico e così sempre. E non è semplice affatto scovare le porte di parole mai dette» (Bacchilide, Peani, fr. 5 Snell-Maehler)
Molti sanno che la canzone ‘Le passanti’ di Fabrizio De André, splendido inno alle bellezze sfuggenti incontrate nell’arco di una vita, è traduzione di un testo di Georges Brassens (che era, a sua volta, adattamento alla musica di un’omonima poesia di Antoine François Pol). Ma certo non deve sfuggire, situata nell’atmosfera ‘maudite’ che così spesso ispira l’opera del cantautore genovese, la parentela di questo soggetto poetico con una delle più famose passanti della storia della letteratura: quella del sonetto ‘A una passante’ di Charles Baudelaire. Tra i molti spunti offerti dal confronto dei testi (lasciati, come sempre, al vostro gusto di giocare – liberamente – con le rifrazioni), ce n’è uno su cui mi piace soffermarmi: il singolare del titolo che diventa un plurale, da ‘Una passante’ a ‘Le passanti’.
Il sonetto di Baudelaire, infatti, contiene nel racconto banale di un incontro fugace un’intuizione straordinaria e terribile, ovvero che “la bellezza dal
lo sguardo che mi ha fatto rinascere” può essere solo ‘fugitive’, può essere solo ‘in divenire’, non si ferma per la strada, per un amore. È una verità d’acqua che si può realizzare solo così: scorrendo; è una felicità ‘passante’. Dove si fermerà? Dove potremo stringerla? Forse nell’eternità, ipotizza disperato il poeta. Ma questa eternità è “Altrove, ben lontano da qui! Troppo tardi! jamais peut-être!”. La donna del sonetto baudelairiano non era dunque ‘una delle passanti’ e forse, anche a dispetto del titolo, non era nemmeno ‘una passante’: lei era ‘la’ passante, colei che spiccava nella folla infelice e ignara, colei “che sapeva”. Come tale, il suo destino era di scorrere via sotto gli occhi del poeta verso un’eternità che già coincide – modernamente – col ‘mai più’.
Sono tante, invece, le “felicità intraviste” e sfuggite di mano all’io lirico di De André-Brassens, sono tante le loro ‘passanti’. Non contengono più l’ “uragano” della passante di Baudelaire, né il suo “lampo”: sono più tenui barlumi, “occasioni lasciate ad aspettare”. E il poeta nemmeno si domanda dove mai le rivedrà: esse sono
già tornate in quella “folla distante” da cui per un attimo erano emerse, quasi per caso. Ma torna, anche in De André, la nota baudelairiana del ‘troppo tardi’: è la vecchiaia, il giorno in cui “la vita smette di aiutarti”, i ricordi cessano di accumularsi e più vicino si fa il nulla. L’eternità, qui, non compare neanche più, nemmeno come speranza negata o come gioco del pensiero: le passanti non sapevano niente, proprio come il poeta che – anche per questo – le ‘capiva’.
FV
A una passante (C. Baudelaire) La via assordante strepitava intorno a me. Alta, slanciata, a lutto, d’un dolore maestoso, passò una donna, sollevando e agitando con mano fastosa il pizzo e l’orlo della gonna,
agile e nobile, con la sua gamba di statua. Ed io, proteso come un folle, io bevevo nel suo occhio, cielo livido dove cova l’uragano, la dolcezza che affascina e il piacere che uccide. Un lampo… poi la notte! - Bellezza fuggitiva il cui sguardo m’ha fatto subito rinascere, ti rivedrò solo nell’eternità? Altrove, assai lontano da qui! Troppo tardi! Forse mai! Perché ignoro dove fuggi, né tu sai dove vado, tu che avrei amata, tu che lo sapevi!
Le passanti (F. De André)