Ci sono autori che definiscono interi periodi, vengono costantemente citati e imitati fino a quando perdono ogni innovazione e freschezza, e quindi iniziano ad apparire desueti e perdono la loro centralità. Nessun regista per me rientra maggiormente in questa categoria di Michelangelo Antonioni, uno dei maggiori autori italiani che insieme a tutta la corrente dell’esistenzialismo, è stata espressa fino alla parodia.
Dunque oggi parliamo di lui, e in particolare uno dei suoi lavori meno acclamati, chiedendoci: perché guardare ancora Antonioni nel 2018?
Il reporter del titolo è un Jack Nicholson impegnato in un servizio su delle milizie nel Sahara, e l’ambientazione desertica fa da sfondo alla sua alienazione e per sfuggire da una vita che lo opprime scambia la sua identità con quella di un americano da lui trovato morto in uno squallido albergo. Questo nuovo ruolo che ricopre si rivela essere quello di un mercante di armi, portando sulle sue traccie non solo i suoi familiari che lo cercano ma anche loschi individui con cattive intenzioni. Inizia quindi una fuga esistenziale da ciò che si vuole lasciare e dal vuoto della vita oltre che da una sorte che potrebbe ripetersi rispetto all’inizio del film, permettendo così alla narrazione di mettere ordine in questo cambio di identità. Dunque un film di inseguimento, ma senza adrenalina, piuttosto la sensazione che in fondo si voglia essere raggiunti e confrontare finalmente la realtà, e in cui è meglio contemplare un paesaggio (Africa, Francia e Spagna fotografati in maniera stupenda da Luciano Tovoli) o vagare senza meta sapendo che gli inseguitori sono ogni momento inesorabilmente più vicini.
Si dice sempre che i film di Antonioni sono più da ammirare che da amare, ed in parte è vero: io consiglio di affrontare l’esperienza ricordandosi che il cinema è un’arte audiovisiva, e dunque il realizzatore utilizza questi due strumenti per arrivare al suo obbiettivo. In particolare non si possono non citare due inquadrature in movimento, una all’inizio del film che crea un flashback senza utilizzare il montaggio ma semplicemente spostando la cinepresa attraverso un ambiente, e un’altra, colossale, alla fine del film di 7 minuti che attraversa le pareti ed è quasi un piccolo film a se stante. Ma in generale il film è pieno del talento compositivo di Antonioni e della sua capacità di trovare un modo sempre originale di raccontare le sue storie di alienazione moderna. E se alla fine del film vi sentite un senso di vuoto dentro, può darsi che anche dopo tutti questi anni il maestro romano sia riuscito nel suo intento.
-EV-
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