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Rhapsody in Blue

All’inizio del Novecento l’idea di coniugare musica classica e jazz affascinò molti compositori: si pensi a Milhaud (La créationdu monde, 1923), a Stravinskij (Ragtime per undici strumenti, 1918), a Ravel (Concerto in sol per pianoforte e orchestra, 1929-31). Il gesto, però, partiva dalla sala da concerto e provava a fecondare la tradizione classica con i nuovi ritmi, le nuove armonie, i nuovi timbri portati dal jazz, in modo non troppo diverso da come si era fatto, e ancora si stava facendo, con la musica popolare raccolta e riutilizzata da compositori come Bartók o Falla.
Gershwin, con la sua Rhapsody in Blue, procedette in senso contrario: da (geniale) compositore di songs, a suo agio nel mondo del musical americano, rispose alla sollecitazione di un direttore di big band e stese un ritratto di vita americana, animata dalla frenesia di quegli anni, che non era jazz, non era musica classica, e si collocava invece su un crinale intermedio. Oggi, probabilmente, definiremmo la partitura cross over, per la sua forza nel superare i generi e la speculare incapacità di abitare un territorio preciso.
La modalità stessa della composizione fu ibrida: Gershwin scrisse la parte del pianoforte solista, e su altri due pentagrammi annotò ciò che un orchestratore, Ferde Grofé, avrebbe poi trascritto per big band, come usava fare per i musical. In un secondo tempo, dato il successo, Grofé ne fece una versione per orchestra sinfonica, sempre con un pianoforte solista – è questa la versione che si ascolta normalmente – così che la Rhapsody in Blue è uno dei rari casi di brano fondamentale del repertorio sinfonico alla cui orchestrazione l’autore non mise mano (un altro, celebre, è quello dei Quadri di un’esposizione di Musorgskij, orchestrati da Ravel).
Ciò che rende così riuscito l’incastro tra i due generi, tra musica con inflessioni jazz e classica, è l’idea di base del brano. Volendo immaginare un suono per l’America del 1924, evocando soprattutto la velocità che stava diventando la caratteristica portante della vita, Gershwin lavorò a frasi brevi, che mutano continuamente direzione. E, anche se in realtà il materiale musicale è estremamente coerente, con una serie di derivazioni dei temi uno dall’altro, la sensazione è davvero rapsodica, di un procedere erratico, sempre sorprendente. In un disegno come questo, ad esempio, gli ampi gesti del pianismo romantico si arrestano sempre un attimo prima di poter essere identificati come tali, e le incisive melodie jazz sono trasposte, trasportate, sfruttate in modo da ricordare le tecniche di elaborazione motivica tipiche della musica classica. Con questa logica del frammento, della velocità, unita alla propria proverbiale capacità di creare melodie e armonie indimenticabili, Gershwin fece nascere un capolavoro, che, ancora oggi, resta il brano-simbolo della musica americana.

 

Dynamis – Il luogo del pensiero è un progetto culturale che nasce a Torino nel 2016 su iniziativa di un gruppo di giovani studiosi, uniti dalla fiducia nella cultura e nel pensiero come efficaci strumenti di lettura della contemporaneità.